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LE RISERVE AUREE DELLA BANCA D’ITALIA. A CHE COSA PUNTA LA TASSAZIONE DELLE PLUSVALENZE SULL'ORO PER USI NON INDUSTRIALI

di FABIO PICCIOLINI Segretario nazionale dell’ADICONSUM

Introdotta nell’ordinamento nazionale dall’articolo 14 della legge 102 del 2009, cosiddetta «anti-crisi», una norma relativa alla tassazione delle plusvalenze sull’oro per uso non industriale potrebbe creare molti problemi. La nuova disciplina, che si applica a società, enti, banche e soprattutto alla Banca d’Italia, consente di tassare con un’aliquota del 6 per cento le plusvalenze nominali anche in assenza di vendita effettiva del metallo. La decisione del Governo è stata fortemente contestata dalla Banca Centrale Europea per vari motivi. Innanzitutto per il mancato rispetto dell’articolo 105 del Trattato di Maastricht che prevede espressamente l’obbligo per la Banca Centrale Europea di esprimente il proprio parere sulla politica monetaria dei Paesi membri dell’Unione Europea; la BCE, invece, non è stata neppure interpellata dal Governo italiano. In secondo luogo per il mancato rispetto dell’articolo 26 dello statuto della stessa BCE, secondo il quale le riserve auree devono essere accantonate e non tassate.
Terzo motivo: la tassa incide sullo stato patrimoniale della Banca d’Italia e sulle sue scelte di investimento, quindi inficia il profilo di autonomia e di indipendenza degli istituti di credito aderenti al Sistema europeo delle banche centrali. Quarto: l’oro è detenuto pressoché interamente dalla Banca d’Italia, quindi la norma sembra essere una tassa «ad personam», e ciò lede l’indipendenza finanziaria della banca centrale. Un quinto motivo è costituito dal fatto che le plusvalenze tassate dovrebbero riferirsi non solo al 2008; non esiste certezza, ma i calcoli compiuti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze avvalorano l’ipotesi di una tassazione retrodatata di vari anni, il che fa presupporre che si tratti di una sorta di patrimoniale utile per finanziare il Tesoro.
Ultimo motivo di contestazione, infine, il seguente: nel 2002, con uno swap di titoli di Stato fra il Ministero dell’Economia e la Banca d’Italia, questa cedette al primo 22 miliardi, acquisendo un credito d’imposta che doveva essere «rimborsato» attraverso l’imposta sul reddito annuale. Si può supporre che la nuova tassa potrebbe essere destinata ad evitare la restituzione del debito del Ministero. In questo modo si attuerebbe una violazione dell’articolo 101 del Trattato di Maastricht, ovvero il divieto per le banche centrali di finanziare i rispettivi Stati.
L’unica concessione fatta dal Governo, consistita nello stabilire un plafond di 300 milioni come prelievo massimo possibile, non è stata ritenuta sufficiente e la normativa originaria è stata modificata introducendo un’appendice che prevede espressamente che la tassa si potrà applicare solo «previo parere non ostativo della Banca Centrale Europea» e attraverso un decreto non regolamentare del Ministero dell’Economia «su conforme parere della Banca d’Italia». In tal modo sono rispettati, almeno nella sostanza, i principi del Trattato e del sistema europeo delle Banche centrali.
In molti si chiedono perché il Governo italiano abbia voluto mantenere questa golden tax senza alcuna possibilità di attuarla e per un introito (illusorio) molto limitato, nonostante il parere contrario del presidente della Repubblica, della Banca Centrale Europea che ha emesso due pareri negativi, della Banca d’Italia e con la spada di Damocle del ricorso alla Corte di Giustizia europea per violazione del Trattato europeo.
La risposta è, in realtà, molto semplice. La presenza della norma, anche inapplicata, consente di acquisire due risultati. Il primo consiste nel fatto che è stato dettato un principio e sarà possibile, in ogni momento, riaprire la polemica a livello nazionale ed europeo. In un momento in cui la crisi ha creato grandi bisogni nelle casse degli Stati non è cosa da poco. Un corollario, molto pericoloso per un Paese europeista della prima ora come l’Italia, sarebbe la ricerca di leadership tra i Paesi se non proprio euroscettici, almeno critici rispetto a tutte le istituzioni europee.
Il secondo risultato è questo: partendo dalla tassazione, si può aprire un’autostrada normativa per consentire la vendita di parte delle riserve. Nessuno può negare il diritto al Parlamento della Repubblica di discutere sulle riserve auree del Paese, a condizione che si tenga conto delle regole e delle conseguenze derivanti dalla discussione. Tra le conseguenze, la prima e più importante è l’aspetto psicologico interno ed esterno.
A livello nazionale l’effetto psicologico, depurato dalle scorie delle battaglie politiche, non potrebbe che essere negativo; si tratterebbe, infatti, di vendere uno degli ultimi gioielli di famiglia. A livello economico internazionale, le già forti preoccupazioni sull’economia italiana si amplierebbero con la prima conseguenza del peggioramento del «rischio Paese e quindi con un aumento dei tassi di interesse nazionali, con un immediato riflusso sul costo dell’immenso debito dello Stato (1.600 miliardi di euro) e con un segnale molto negativo per i mercati.
Infine un ultimo effetto, però primo per importanza: s’infrange il principio che le riserve auree devono essere finalizzate al rispetto degli impegni istituzionali delle banche centrali nazionali, e devono essere disponibili per la stabilità del sistema. La previsione di una tassazione dell’oro fa venire immediatamente in mente la possibilità che la mossa successiva sia la richiesta di vendita di parte delle riserve auree del Paese. Ciò sarebbe ancora più dannoso.
L’oro detenuto dalle banche centrali serve a dimostrare che le banconote emesse dai singoli Stati hanno un «sottostante» concreto. In seguito all’accordo di Bretton Woods, dalla fine della seconda guerra mondiale e fino al 1971 è esistito il «gold dollar standard», in forza del quale il dollaro Usa poteva essere liberamente convertito in oro al prezzo fisso di 35 dollari per oncia. Nel 1971 con gli accordi smithsoniani la parità fu abolita. Dimostrare la forza della valuta è ancora più importante per l’Unione monetaria europea che ha scelto l’euro come propria moneta. 16 dei 27 Paesi aderenti ad essa hanno messo in comune parte delle loro riserve di oro e di valute a garanzia della stabilità della nuova moneta.
Le riserve auree dell’Italia ammontano a 2.451,8 tonnellate, corrispondenti a circa 55 miliardi di euro; sono depositate nei suoi caveaux ma anche all’estero - presso la Federal Reserve Bank, la Banca dei Regolamenti internazionali - e sono sempre state uno dei pochi punti di forza e di difesa del Paese anche nei momenti di maggiori difficoltà economiche. Il baluardo principale all’uso delle riserve è il Trattato europeo, con rilevanza costituzionale, che all’articolo 108 prevede in maniera inequivocabile che la proprietà delle riserve auree è della Banca d’Italia e non dello Stato. Considerata la valenza costituzionale del Trattato, non può essere una legge ad imporre alla Banca di vendere le riserve.
A proposito di «proprietà» il Governo si fa forte di una norma, il Regolamento europeo dei conti economici integrati, secondo il quale le riserve sono «della nazione», o del popolo secondo il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. È un’interpretazione equivoca e parziale in quanto è completamente sottaciuto un altro principio riportato nello stesso Regolamento, nel quale si afferma espressamente che le banche centrali hanno piena autonomia di gestione delle riserve sia a livello macroeconomico sia in politica monetaria. Quando i Governi nazionali intervengono per usare le riserve non rispettano la «piena autonomia di gestione».
Un secondo baluardo, anche se parziale, è l’impegno che la BCE e le Banche centrali hanno assunto, con il Central Bank Gold Agreement del 2004, di vendere solo 500 tonnellate l’anno fino al 2009. In forza degli accordi, l’uso delle riserve auree, sempre con il consenso della Banca Centrale Europea, unico soggetto che può decidere in materia, è stato già attuato o deciso da alcuni Paesi europei. Il ricavato delle vendite non può essere utilizzato per «finanziare iniziative di sviluppo».
La Finlandia non ha potuto vendere parte delle proprie riserve per l’opposizione della BCE; la Francia ha visto fortemente ridimensionata la richiesta di vendere le proprie riserve ed è stata autorizzata solo con l’impegno di destinare il ricavato a iniziative specifiche e di godere dei soli interessi derivanti dalla vendita; l’Austria ha ottenuto un assenso con riserva per la creazione di un fondo pubblico destinato a finanziare progetti di ricerca nei quali la banca centrale versa 75 milioni di euro l’anno derivanti dalla gestione delle riserve; l’Irlanda, dopo il diniego per la destinazione dei proventi delle vendite al Fondo di previdenza nazionale, ha ottenuto il consenso solo per il riconoscimento degli interessi; alla Germania è stato vietato, anche dalla sua banca centrale, di investire, in progetti di ricerca e sviluppo, anche i soli interessi derivanti dai proventi delle vendite, per cui queste non sono state compiute.
Quindi, per la riduzione dell’immenso debito pubblico italiano potrebbero essere usate solo le plusvalenze realizzate dalla vendita e gli interessi ricavati dall’eventuale investimento in titoli di Stato. Anche se in teoria la Banca d’Italia potrebbe vendere ogni anno oro per un valore di vari miliardi, le conseguenze positive per il bilancio sarebbero solo di qualche decimo di punto nel rapporto debito-prodotto interno.
In caso di uso non corretto del ricavato dell’eventuale vendita, viene avviata una procedura di infrazione contro lo Stato italiano ai sensi dell’articolo 101 del Trattato, per il contrasto con il principio di indipendenza delle banche centrali. Visti gli aspetti problematici della gestione delle riserve auree, sarebbe però opportuno ragionare senza pregiudizi sull’enorme ammontare delle riserve immobilizzate, sulla base magari di soluzioni europee anziché nazionali.

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