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CASO FIAT - QUANTI SONO 7 MILA POSTI DI LAVORO?

Ogni ritardo aggrava la situazione. Potremmo un giorno non molto lontano trovarci senza Fiat e senza imprese manifatturiere. L’emergenza del nostro Paese è la ripresa dello sviluppo. La politica per l’industria è fondamentale. Occorre prevedere forme di coinvolgimento e di partecipazione del sindacato e dei lavoratori. Occorre riequilibrare il carico fiscale. Occorre troncare lo spreco della spesa pubblica. Occorrono le riforme. Occorre la politica.

Marchionne-Monti, Fiat-Italia, nulla di fatto nell’incontro del 22 settembre scorso. Il piano Fabbrica Italia è bloccato. Gli investimenti in Italia saranno effettuati nel «momento idoneo». L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne e il presidente della stessa John Elkan «hanno manifestato l’impegno a salvaguardare la presenza industriale della Fiat in Italia, anche grazie alla sicurezza finanziaria che deriva dalle attività extraeuropee» (la Chrysler). Ed ancora: «La Fiat è intenzionata a riorientare il proprio modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export, in particolare extraeuropeo valorizzando l’attività in Italia della ricerca e dell’innovazione».
A Palazzo Chigi si è, in sostanza, raggiunta una tregua tra il Governo e la Fiat. La vera trattativa tra l’azienda e l’Esecutivo si svolgerà nel mese in corso. Sono in bilico settemila posti di lavoro (cinquemila a Mirafiori e duemila a Pomigliano) per i quali è necessaria la cassa integrazione guadagni in deroga. Il piano presentato dalla Fiat al Paese due anni fa (Fabbrica Italia) prevedeva il raddoppio della produzione di auto in Italia per passare gradualmente da 650 mila vetture a un milione 400 mila nel 2014. Nella produzione dei veicoli commerciali era previsto il ritorno alla quota di 250 mila unità prodotte.
La proposta di Marchionne fu dirompente. Si divisero i sindacati (la Fiom rifiutò l’accordo), i partiti, gli imprenditori. Le proposte della Fiat (fare le fabbriche laddove esiste una più conveniente disponibilità di risorse materiali, lavorative, creditizie) non trovarono risposte unanimi sul progetto. Nel gennaio del 2011, nel pieno della polemica, Marchionne aveva detto al direttore di Repubblica in un’intervista: «La mia sfida per la nuova Fiat sarà salari tedeschi e azioni agli operai».
Il movimento sindacale non è stato e non è in grado di contrattare unito con la Fiat. Incombe ancora il mito dello scontro di classe, dell’avversione ideologica, del desiderio di rivalsa per la sconfitta del 1980 con la marcia dei quarantamila. È fondamentale invece costruire un rapporto con i sindacati che operano negli altri Paesi e in particolare con l’UAW (United Automobil Workers), che ha rinunciato per un periodo definito allo sciopero non perché non lo consideri un diritto e un’arma fondamentale, ma perché sa calcolare con realismo i rapporti di forza.
Oggi la situazione è radicalmente mutata. La crisi dell’auto in Europa e in Italia è lungi dall’essere risolta. Anzi si è aggravata. La produzione di auto in Italia raggiunge a malapena le 400 mila unità, meno di quelle della Slovacchia. Ecco i dati della Fiat sull’occupazione: nel 2012 su 197.021 dipendenti solo 62.583 sono in Italia (60.336 sono in Nord America; 44.668 in Sud America; 23.596 in Europa esclusa l’Italia); gli stabilimenti sono 155 (47 in Nord America, 19 in Sud America, 46 in Italia, 31 in Europa, esclusa l’Italia); i ricavi, in milioni di euro sono 59.559 (21.423 in Nord America; 44.668 in Sud America; 9.258 in Italia; 12.363 in Europa esclusa l’Italia).
Non sono possibili interventi di Stato come è avvenuto in Usa, in Brasile, in Serbia. Marchionne è irritato con l’Europa perché qualche tempo fa ha aperto le frontiere all’industria automobilistica coreana, creando molti problemi di competitività alla Fiat nel settore dell’auto di piccola e media cilindrata. Il Foglio ha reso noto, il 22 settembre scorso, il «piano operativo» sulla situazione occupazionale alla Fiat. A Mirafiori, ad esempio, si fermeranno le attività sulla linea Musa/Idea, a fine produzione. In particolare, da ottobre a dicembre 2012 sono 63 i giorni di cassa integrazione previsti (in un anno in tutto sono stati 54 quelli di attività). Nella linea Mito, invece, sono 39 i giorni di lavoro nell’ultimo trimestre (73 giorni complessivi in un anno). A Cassino sono necessari 26 giorni di cassa integrazione guadagni nell’ultimo trimestre del 2012, contro 136 giorni di lavoro annuali. A Melfi, dove si produce la Grande Punto, sono 35 i giorni di fermo complessivi negli ultimi tre mesi su 96 lavoratori in un anno. A Pomigliano, infine, saranno 186 i giorni lavorati a fine anno, con un ricorso alla cassa integrazione di 15 giorni a ottobre e a novembre.
Marchionne e la Fiat si sentono estranei all’Italia, nella quale manca un’idea di politica industriale. A chi gli indica come modello la Volkswaghen, la Fiat risponde che in Italia il sindacato e la politica non sono simili a quelli che operano in Germania. In questo scenario è così maturato il rinvio sine die del progetto di investimenti per 20 miliardi nel nostro Paese. Anzi, Marchionne sei mesi fa a Daniel Howers del Detroit New, parlando del probabile spostamento della sede centrale della Fiat in America, ha detto: «Se non avessi vincoli succederebbe subito, perché sfortunatamente l’unico modo di trattare con gli italiani è portare via Mamma Oca» («Mother Goose», nel testo originario, un personaggio di una fiaba). E poi dire: «Avete visto? Adesso sono un investitore straniero».
Una situazione esplosiva. Altro che lotta di classe, siamo alla disperazione della classe operaia. Ora alcune considerazioni. La Fiat oggi non è più quella degli Agnelli e di Romiti. È una multinazionale. Marchionne è un manager, casualmente nato in Italia. Il mondo politico, quello economico, quello sociale, non possono ragionare con la testa rivolta al passato. Gianni Agnelli, Umberto Agnelli e Cesare Romiti si sentivano legati a Torino, all’Italia. Erano immersi nella politica italiana. Per anni, anzi per decenni, furono determinanti nelle scelte politiche ed economiche.
Ora tutto è cambiato. La Fiat non è più nella Confindustria; è disinteressata degli sviluppi della politica a livello locale e a livello nazionale; è già in prevalenza fuori dall’Italia. Non serve ricordare le tante agevolazioni che lo Stato ha dato alla Fiat. È vero, ci sono state e furono ingenti. Ma è acqua passata, appassionano lo stanco dibattito nei talk-show. Oggi la Fiat guarda solo ai risultati economici; ha individuato le possibilità di crescita e di sviluppo fuori dal nostro Paese. Ha rinunciato a smentire quella diffusa opinione secondo la quale gli italiani sanno progettare e costruire le auto senza essere però capaci di venderle. Il caso Fiat è emblematico: è la punta di un iceberg. L’attività manifatturiera è in crisi in Italia. Le aziende straniere non investono più nel nostro Paese. Molte imprese da tempo sono emigrate altrove. Per quali motivi? È facile rispondere.
Chi vuole fare impresa nel nostro Paese è perseguitato da una politica economica e sociale ostile. Bisogna parlarne, o ci si specializzerà in un dialogo tra sordi. Credito, fisco, energia, infrastrutture, produttività, giustizia, export frenano l’industria, le impediscono di essere competitiva. È l’intero sistema Italia che non regge il confronto con il resto dell’Europa. Lo «spread» della competitività penalizza soprattutto il sistema delle piccole imprese. I tassi di interesse sono superiori dell’1,35 per cento; i costi dell’energia sono più alti (40 per cento in più l’elettricità, 5 euro in più per megawattora per il gas); i tempi della giustizia sono leggendari: 642 giorni in più; i costi burocratici dell’export sono superiori del 20 per cento; i problemi dell’ambiente, come all’Ilva, sono troppo ultimativi.
Il Sole 24 Ore ha intrecciato i dati di vari organismi internazionali (Banca Mondiale, BCE, Eurostat, Trasparency ecc.). I risultati sono sconcertanti. L’Italia è quasi sempre in fondo nella classifica dell’efficienza e della competitività. Ora tocca alla politica intervenire con le riforme. Se si tarda ancora, in pochi anni il Paese rischia di perdere la sua industria, non solo la Fiat. Individuare i problemi strutturali non è difficile. Occorre trovare la forza politica per guarire l’Italia dalle tante inefficienze che tagliano le gambe al made in Italy.
La politica fiscale impedisce di «creare lavoro» nell’attività manifatturiera. In Italia si tassa il 68,5 per cento degli utili; nei Paesi OCSE il 46,8 per cento, nei principali Paesi europei il 49,7 per cento. Il fisco non pesa solo per quantità, ma anche per qualità. In quattro anni sono state violate 512 volte le norme dello Statuto del contribuente; si è appesantita oltre misura l’incertezza delle norme (basta pensare alla mancata normativa sull’abuso di diritto); si è data via libera alle Regioni, ai Comuni, alle Province, di infierire sull’attività produttiva con un insensato e incontrollato aumento delle addizionali e degli oneri amministrativi sulle auto.
Gli sprechi della politica sono diventati insostenibili. È stato un grande errore la riforma del Titolo V della Costituzione. L’autonomia degli enti locali ha determinato e determina un crescendo di imposizioni fiscali, di eccessi burocratici, di corruzione. Le Regioni con il federalismo fiscale, tranne alcune limitate eccezioni, sono diventate dei centri di spreco incontrollabili. Si pone l’esigenza, dopo quello che si è verificato in Lombardia e nel Lazio, di prevedere un robusto ridimensionamento dei compiti delle autonomie locali, a partire dalle Regioni.
È stato ed è un errore affrontare i problemi della Fiat senza coinvolgere le forze economiche e sociali. Il ministro Corrado Passera parla di un patto sociale. Giusto. Occorre però che tutti gli interlocutori mettano qualcosa sul tavolo: il Governo le misure fiscali per favorire gli investimenti e sostenere il salario di produttività; la Confindustria la disponibilità a individuare forme di partecipazione alla tedesca; i sindacati l’impegno a migliorare la produttività. I patti, senza fatti e senza contenuti sono semplici slogan. Ecco perché il Governo, invece di moltiplicare i tavoli di discussione (addirittura oggi sono 178) deve chiamare tutte le parti sociali, senza perdere ulteriore tempo. L’adesione all’Europa, con i crescenti adempimenti (come euro o fiscal compact) ha reso impossibili le cattive abitudini dell’Italia che in passato, per rendere competitiva l’industria, ricorreva alla svalutazione della lira e agli aiuti di Stato. Oggi non è più possibile. Abbiamo disperso le risorse che ci derivavano dalla riduzione dei tassi di interesse e abbiamo incrementato la spesa pubblica appesantendo il sistema produttivo.
L’emergenza del nostro Paese è la ripresa dello sviluppo. La politica per l’industria è fondamentale. Occorre riequilibrare il carico fiscale. Occorre prevedere forme di coinvolgimento e di partecipazione del sindacato e dei lavoratori. Occorre troncare lo spreco della spesa pubblica. Occorrono le riforme. Occorre la politica. Ogni ritardo aggrava la situazione. E potremmo un giorno non molto lontano trovarci senza Fiat e senza imprese manifatturiere.

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