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STEFANO DAMBRUOSO: va risolto il disagio economico di alcune classi sociali

Stefano Dambruoso questore Camera Deputati

a cura di
ANNA MARIA BRANCA


Magistrato, scrittore e politico italiano, già sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, Stefano Dambruoso è stato eletto deputato nella recente consultazione politica per «Scelta Civica per l’Italia», ed è ora questore della Camera dei Deputati. In magistratura dal 1990, è stato sostituto procuratore ad Agrigento poi applicato alla procura distrettuale di Palermo, indagando su associazioni mafiose e reati contro la pubblica amministrazione. Nel 1996 passò alla procura di Milano dove indagò sulle brigate anarco-insurrezionaliste e sul terrorismo internazionale.
Nel 2001 entrò nella Direzione distrettuale antimafia di Milano. Sei mesi prima degli attentati alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, fece arrestare cinque islamici, tra i quali Essid Sami Ben Khemais il quale, con continui spostamenti in Paesi europei e contatti con cellule, forse preparava un attentato al Duomo di Strasburgo da realizzare durante le festività natalizie. Il magistrato prese poi contatto con la Law Enforcement americana e perfezionò nuovi strumenti investigativi per prevenire il terrorismo islamico. Il settimanale «Time» lo inserì nella lista degli eroi moderni per le indagini sulla rete di Al Qaeda. Dopo una parentesi di tre anni quale esperto nella rappresentanza italiana dell’Onu a Vienna, nel 2007 tornò alla procura di Milano; l’anno seguente fu nominato capo del Coordinamento dell’attività internazionale dal ministro della Giustizia Angelino Alfano.

Domanda. Investigatori e magistratura devono fare i conti, oltre che con il terrorismo internazionale di matrice islamica, con fenomeni terroristici di casa. La preoccupa il momento politico e sociale che sta vivendo l’Italia?
Risposta. In Italia oggi dobbiamo fare molta attenzione al disagio economico che vivono alcune classi sociali ma non vi sono segnali che facciano pensare all’esistenza di un fenomeno organizzato come quello degli «anni di piombo» e gerarchicamente organizzato come le Brigate Rosse. Quello cui stiamo assistendo, ma che abbiamo sotto controllo, è la cosiddetta «area del dissenso organizzato», le cui espressioni più violente e aggressive sono rappresentate dagli anarco-insurrezionalisti cui è possibile attribuire anche l’ultimo pacco-bomba scoperto a Torino nelle scorse settimane. Questo non ci deve indurre a sottovalutare la pericolosità di questo fenomeno che cova in casa da sempre, e che non si è mai sopito anche se non ha mai compiuto omicidi clamorosi o organizzati, diversamente da quelli delle Brigate Rosse o di strutture più organizzate. Sono fenomeni che si autoalimentano in continuazione e, sebbene contrastati dalla magistratura e dalla polizia, visto che il disagio è cresciuto negli ultimi 30 anni trovano sempre nuovi adepti, che vengono facilmente incanalati in quest’area del dissenso. Va tenuto un continuo controllo sul fenomeno.

D. Che cosa intende per disagio?
R. La situazione di persone non politicizzate che subiscono le conseguenze della crisi economica. Chi non si riconosce in uno Stato che non gli ha garantito un posto di lavoro e una struttura sociale in cui sviluppare la propria personalità e trovare una soddisfazione per sé e per la propria famiglia, si lamenta contro chi la gestisce, ed è lì che il malcontento assume un taglio politico; è l’area del dissenso di cui parliamo, genericamente definita anarco-insurrezionalista, presente in Italia da almeno un trentennio.

D. Qual è lo stato della lotta al terrorismo internazionale in Italia?
R. L’Italia è uno dei Paesi che hanno meglio compreso il fenomeno del terrorismo internazionale, soprattutto di matrice qaedista, e l’ha contrastato con una tipica attività investigatrice che vantiamo tra le nostre specializzazioni, per cui siamo abituati da tempo a contrastare la criminalità organizzata, riconosciuta soprattutto nelle cosiddette mafie di varia origine e natura, locali e internazionali. È chiaro che, quando ci siamo trovati di fronte al terrorismo internazionale abbiamo dovuto soltanto mettere a punto i nostri metodi perché, di fronte ad una minaccia senza un radicamento ben individuato e quindi davvero internazionale e globale, come lo stesso Bin Laden ha voluto chiamare la propria, abbiamo dovuto soltanto adeguare un metodo rispetto alla novità del fenomeno. Ma siamo stati fra i primi Paesi a dare un notevole contributo alle investigazioni degli Stati Uniti, colpiti duramente dall’attentato dell’11 settembre 2001. Abbiamo assunto e svolto un ruolo che ritengo assolutamente soddisfacente come espressione della nostra capacità sia di prevenzione sia di repressione, arrestando quei soggetti che in Italia erano portatori di questa minaccia.

D. L’Italia è penalizzata dall’assenza di una Procura nazionale antiterrorismo?
R. Il terrorismo internazionale per sua natura non è un fenomeno criminale locale, è nazionale perché ha una propria genesi transnazionale. Abbiamo avvertito l’assenza di un unico ufficio giudiziario, che raccogliesse tutti i dati investigativi da cui trarre ulteriori stimoli per le indagini, quando ci siamo trovati a contrastare un’organizzazione basata su più Paesi, che aveva nel nostro territorio più cellule fra loro collegate, facenti capo ad una casa madre transnazionale situata in Afghanistan, in Pakistan o in Europa. Solo il coordinamento consente di monitorare e fronteggiare un fenomeno che, per sua natura, non può essere ridotto all’attività di una singola Procura distaccata in una singola regione. Essendo un fenomeno transnazionale, è necessaria una Procura nazionale sia per coordinare l’attività nell’immediato, sia per confrontarsi con le Procure degli altri Paesi. Francia, Spagna, Inghilterra hanno uffici centralizzati di Magistrature che coordinano questo tipo di criminalità. Negli incontri internazionali si presentano con un capo unico, noi con 6 o 7 sostituti procuratori, ciascuno titolare di una singola indagine.

D. Non è possibile creare un coordinamento?
R. Se ne parla da tempo, ma vi sono difficoltà. Una spiegazione che mi è stata più volte fornita, in merito al blocco di questi uffici giudiziari, è che non c’è mai stato un collegamento perché nel nostro Paese non c’è mai stata reciproca fiducia fra il settore politico e quello giudiziario. Per cui creerebbe grandi problemi conferire un ulteriore strumento investigativo centralizzato alla Magistratura, non controllato dalla politica come dovrebbe essere normale. Se così fosse, questa impasse andrebbe superata. Non è stato facile avere la Procura nazionale antimafia, ci sono volute le stragi di Palermo per veder riconosciuta finalmente questa necessità. Abbiamo dovuto pagare con due vittime, due eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per vedere riconosciuta l’ovvia necessità di coordinamento investigativo.

D. Se l’Italia è considerata una solida base logistica per i terroristi, perché non vi sono stati attentati? Di chi è il merito?
R. Essendo al centro del Mediterraneo, l’Italia costituisce il primo Paese di approdo per tutta l’area del Nord Africa, nella quale il dissenso è sfociato nelle «primavere arabe». Giungevano pertanto da noi persone in fuga dai loro Paesi per ragioni economiche ma soprattutto politiche, perché contestavano le dittature locali raggruppandosi intorno all’area religiosa islamica. Perseguitate, erano costrette a fuggire in uno dei Paesi più vicini, ove potevano trovare ospitalità soprattutto presso familiari che ne condividevano le ragioni ideologiche e politiche. Non vi sono stati attentati terroristici di rilievo. Dei pochi compiuti, l’ultimo, il tentativo compiuto nel 2009 da un qaedista di far saltare in aria una caserma dei Bersaglieri a Milano, del quale parlo nel mio libro «Un istante prima», fu sventato sia per l’abilità delle forze dell’ordine sia per un po’ di fortuna, ma non per l’esistenza di una particolare strategia che escludesse l’Italia dai bersagli di tali attentati; il merito va alle Forze dell’ordine e all’Intelligence.

D. Nel suo libro si accenna all’integrazione come arma contro intolleranza, estremismo e fanatismo. Basta questa?
R. No. Quello che cerco di dire è che bisogna mantenere ferma la risposta di giustizia, e quindi la prevenzione che solo le forze dell’ordine e le magistrature riescono a fare. Non possiamo pensare che soltanto reprimendo si risolve questo problema. Dobbiamo avere la consapevolezza che politiche di integrazione eviteranno il più possibile che singoli soggetti, giunti in Italia o in Europa non perché terroristi ma perché spinti dalla fame, trovino nella religione l’unica fuga dai disagi, che li porta anche a sacrificare la vita, non avendo nulla da perdere. Si è verificato con il tentativo di Mohamed Game di farsi saltare in aria nel 2009 a Milano; episodi simili si sono verificati in Svezia nel 2010. Il messaggio che ho voluto dare con il mio libro è questo: fermezza nella risposta attraverso un’adeguata legge, prevenzione da parte delle forze dell’ordine e delle magistrature, ma anche politiche di integrazione per attenuare il rischio che si creino focolai di disagio che portino ad azioni terroristiche.

D. C’è una situazione che ricorda con più passione in questo campo?
R. Dopo l’11 settembre 2001 si viveva in una suggestione globalizzata. Chi era esperto del settore si sentiva portatore di un particolare contributo alla sicurezza del mondo intero. Anche io da Milano ho vissuto quel momento e con particolare coinvolgimento ho compiuto varie indagini. Ricordo l’esperienza di un bravo calciatore tunisino trasferitosi in Italia per ragioni calcistiche, e che ora gioca in serie A in Germania. A causa di un infortunio calcistico gli si lede una gamba, si fermò ed entrò in una crisi professionale. Aveva acquistato auto occidentali pur rimanendo musulmano, e in un momento di smarrimento personale pensò che soltanto dedicandosi alla violenza religiosa avrebbe trovato la risposta al proprio disagio personale. Pur di andare nei campi di addestramento in Afghanistan, nel 2002 donò 500 mila euro all’organizzazione, per diventare mujaheddin e potenziale uomo-bomba da sacrificarsi davanti all’ambasciata americana di Parigi. Riuscimmo ad intervenire prima e, dopo tre mesi di carcere, ha collaborato proprio perché non gli apparteneva la figura del terrorista; è stato facilmente recuperato e ci ha raccontato questa storia.

D. Il terrorismo necessita di ingenti flussi finanziari per operare. Cosa è stato fatto per contrastarlo su questo fronte?
R. Non ho mai riscontrato una necessità di ingenti flussi finanziari. Al contrario, ho riscontrato che si può compiere un’azione terroristica micidiale anche con pochi soldi, perché è la disponibilità del proprio corpo un’arma, senza nessun valore. La lotta al finanziamento al terrorismo internazionale è stata necessaria per isolare i supporter del terrorismo qaedista che abbiamo conosciuto. Quindi soldi non molti, ma un’attività cui anche l’Italia ha partecipato con il congelamento dei beni: ogni volta che avevamo non sentenze con accertamenti giudiziari nei quali gli indagati potevano difendersi, ma notizie di intelligence sulla cosiddetta black list, intervenivamo per congelare la disponibilità dei beni delle persone in essa inserite. La maggior parte erano poveretti, ma abbiamo avuto anche l’esperienza di una banca chiamata Al Taqua, con sede fra l’Italia e la Svizzera, cui sono stati congelati 300 milioni di dollari; dopo otto anni di giudizi da essa intentati per riavere quei fondi, non abbiamo avuto ragione noi. Devo dire che quel sistema ha funzionato nel corso degli anni.

D. Che c’è di nuovo nell’antiterrorismo dopo gli attentati del 2001?
R. Il magistrato con esperienza italiana ha dovuto misurarsi con una nuova forma di criminalità, non corrispondente alla logica della procedura penale italiana, soprattutto perché si svolge prevalentemente all’estero. Noi abbiamo un sistema burocratico che non facilita la cooperazione internazionale. Bisogna abbattere le frontiere, come si è fatto per il mercato unico europeo per cui si può passare da un Paese all’altro senza problemi e controlli. Gli atti giudiziari, invece, si bloccano al confine del nostro Paese, perché è necessaria una notevole attività burocratica. Non abbiamo creduto, cosa che invece altri Paesi hanno fatto, nelle squadre investigative comuni, grazie alle quali, dinanzi a un fenomeno di criminalità transnazionale, i Paesi formano gruppi di investigazione comune, gli atti compiuti in uno di essi valgono automaticamente per gli altri e non c’è bisogno di rogatorie, strumento burocratico che consente di usare nel processo nazionale gli atti acquisiti in un Paese straniero.

D. Sono quindi indispensabili squadre investigative comuni?
R. Nel nostro sistema tutte le attività di prevenzione devono avere un fine processuale, perché nel processo si garantisce non solo la democrazia ma il diritto alla difesa, principio sancito in tutte le Costituzioni dei Paesi democratici. Se l’investigazione deve mirare al processo, con le squadre investigative comuni questo è realizzato; per ragioni prevalentemente politiche noi abbiamo opposto resistenze nell’aderire a questa impostazione. Francia e Spagna, che hanno accettato questa modalità operativa, hanno di fatto distrutto il terrorismo basco.

D. Cosa porta un magistrato a scegliere un settore della giustizia particolarmente a rischio?
R. Ho sempre voluto fare l’investigatore e quindi il pubblico ministero. L’ho fatto prima sulle mafie in Sicilia. Poi quasi casualmente perché, giungendo a Milano nel 1996, il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli mi destinò ad un ufficio che non era particolarmente desiderato. All’epoca altre investigazioni attraevano i magistrati, ad esempio quelle di Mani Pulite. Ho lavorato da solo in questo settore eseguendo indagini internazionali, che mi stimolavano particolarmente. Con gli attentati dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle di New York si sono accesi i riflettori su un’attività che nei 5 anni precedenti non era stata particolarmente considerata; da allora in poi ha ricevuto una grande attenzione sia istituzionale che mediatica.

D. Oggi corriamo dei rischi?
R. Io sono ottimista. Ritengo che non corriamo rischi, le organizzazioni eversive sono state debellate e smantellate. Quello che dobbiamo temere è l’azione del singolo che, non particolarmente integrato, manifesta la propria insoddisfazione in qualche gesto folle e si fa saltare in aria. È il rischio da temere, ed è per questo che sono necessarie politiche di integrazione.

D. Ma è più facile o più difficile controllare i singoli?
R. È quasi impossibile, ma dalle esperienze che abbiamo avuto si è imparato a non sottovalutare i messaggi che comunque arrivano. Per esempio, un soggetto che si è fatto saltare in aria si era messo in evidenza quattro mesi prima aggredendo Daniela Santanché sia perché la parlamentare aveva manifestato contro l’islamismo, sia perché impersona una figura di donna contestata nel loro mondo; l’aggressione non poteva essere considerata  fine a se stessa, doveva indurre ad osservare con più attenzione quel soggetto.

D. Qual è il compito del questore della Camera dei Deputati?
R. Prevalentemente si occupa del bilancio finanziario della stessa, che prevede spese per un miliardo di euro all’anno. Rivolge una grande attenzione alle «uscite», alle retribuzioni dei deputati e dei dipendenti, agli stanziamenti per garantire la sicurezza del grande edificio rappresentativo del nostro Paese.

D. Quale provvedimento proporrà nella sua nuova attività di parlamentare?
R. Una volta entrati in politica, i magistrati non devono poter tornare più a giudicare. Bisogna consentire loro di rimanere nella Pubblica Amministrazione senza riprendere ad esercitare la funzione di magistrato. Essendo stato eletto deputato nelle recenti consultazioni, non tornerò indietro. Mi batterò per fare approvare una legge che preveda il passaggio all’Avvocatura o al Consiglio di Stato dei magistrati entrati in politica.

D. Concretamente come lo proporrà?
R. Tra i miei primi obiettivi è quello di promuovere una proposta di legge parlamentare, o un disegno di legge governativo, che non discrimini i magistrati, ma che riconosca loro, come prescrive la Costituzione per tutti i cittadini, il diritto di entrare in politica, di essere eletti senza preclusioni, il cosiddetto diritto all’elettorato passivo. È chiaro che, entrando nella politica, il magistrato perde quella terzietà che il cittadino si aspetta. Per cui perde anche la possibilità di continuare a fare il magistrato. Ma questo non vuol dire che deve essere penalizzato. Ha vinto un concorso pubblico, per cui può rimanere nella pubblica amministrazione. È quanto avviene anche in altri casi. Il magistrato quindi non dovrebbe più tornare a svolgere la precedente attività, ma potrebbe ricoprire figure analoghe, di pari livello nell’ambito della pubblica amministrazione. Per aver concorso nelle recenti elezioni politiche, il magistrato Antonio Ingroia ha vissuto questa difficoltà, costretto o a tornare a fare il pubblico ministero o a dimettersi. Anche se mi dispiacerà di non poter tornare a fare il magistrato, spero di contribuire ad attuare un passaggio necessario della vita politica del Paese.        

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