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MARCO BERTOLINI: Presente, passato e futuro delle missioni di pace italiane

Marco Bertolini COI Vertice Interforze

Nativo di Parma, dopo aver frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino, promosso Tenente e assegnato al battaglione «Col Moschin» della Brigata Paracadutisti Folgore, dopo vari incarichi l’attuale Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini fu nominato Capo di Stato Maggiore e successivamente comandante della stessa Brigata. Nominato quindi Primo Comandante Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, nel 2008 ha assunto l’incarico di Capo di Stato Maggiore del Comando ISAF in Afghanistan. Rientrato in Italia, ha diretto il Comando Militare Esercito Toscana e lo scorso febbraio ha assunto il Comando Operativo di vertice Interforze. Ha partecipato a una serie di missioni all’estero: in Libano, quale Comandante della Compagnia Incursori; in Somalia, quale Comandante della Base operativa Incursori; in Bosnia Erzegovina, quale Capo di Stato Maggiore della Brigata multinazionale Nord di Sarajevo; quale Capo di Stato Maggiore dell’Extraction Force della Nato per l’eventuale recupero dei verificatori Osce nel Kosovo; con il grado di Generale di Brigata, quale Comandante del Contingente italiano nell’ambito dell’Operazione Nibbio in Afghanistan. Insignito di varie onorificenze, è istruttore di paracadutismo con all’attivo 1.400 lanci. In questa intervista illustra l’attività del COI, il Comando Operativo Interforze.

Domanda. Che cos’è il COI e quali sono i suoi compiti e responsabilità?
Risposta. È il principale tra gli strumenti operativi dei quali si avvale il Capo di Stato Maggiore della Difesa che attualmente è il Generale Biagio Abrate, quale comandante in capo delle Forze armate italiane. Dal COI dipendono le unità operative impiegate fuori area, nelle missioni internazionali, ma anche quelle impiegate sul territorio nazionale, per esempio nell’operazione «Strade sicure», a supporto della Polizia alla quale le Forze armate forniscono unità per rinforzarne l’azione di controllo. I compiti del COI consistono innanzitutto nella pianificazione delle operazioni e nella loro condotta, vale a dire nell’emanazione di ordini alle unità impiegate sul campo, mentre la preparazione delle forze compete alle singole Forze armate, cioè all’Esercito, alla Marina, all’Aeronautica e ai Carabinieri. Una volta pronte, si formano «pacchetti» di capacità differenziati in base al compito da assolvere, ossia contingenti che vengono inviati in operazioni sotto il controllo operativo del COI. Per quanto attiene alle responsabilità, il COI deve assicurare, oltre all’assolvimento del compito assegnato, che l’impiego delle nostre unità, soprattutto in ambito internazionale, avvenga nel rispetto dei vincoli e dei limiti imposti dall’autorità di Governo nazionale. In poche parole, tale attività si estrinseca nell’elaborazione ed emanazione di ordini e disposizioni indirizzati ai contingenti sul campo o in mare, e all’esecuzione di attività di verifica. Una componente rilevante della nostra attività risiede nel supporto logistico dei reparti impiegati. Per far ciò, il COI si coordina con i Comandi Operativi delle Forze Armate, usando specifici sistemi informatici di comando e controllo.

D. Su cosa è incentrata la struttura ordinativa del COI?
R. È articolata in tre componenti principali: una componente per seguire l’evolversi delle operazioni; un’altra per la pianificazione delle missioni; e una terza per il supporto logistico. Queste tre branche fanno capo a un Capo di Stato maggiore del COI, che rende conto a me in quanto comandante. Per svolgere la sua funzione di comando nei confronti anche di Contingenti che operano a grande distanza dalla madrepatria, il COI si avvale di sistemi di comando e di controllo informatici ed usa estensivamente i collegamenti satellitari. In questo settore si sono avuti progressi impressionanti in questi ultimi anni. Ad esempio, nella prima operazione fuori area dell’Esercito Italiano in questo dopoguerra e alla quale ho partecipato nel Libano nel 1981, avevamo solo collegamenti radio, non c’erano internet e il telefono satellitare, e tutto era molto più problematico. Ora usiamo sistemi di comando e di controllo in grado di indicarci in tempo reale la posizione delle unità e di farci vedere materialmente cosa succede sul campo. A parte questi collegamenti, la situazione dei nostri contingenti è anche oggetto di frequenti visite ispettive da parte del nostro personale, costantemente presente nei molti teatri operativi in cui l’Italia opera.

D. Oggi sono circa 9 mila i militari italiani impegnati in missioni all’estero. Come si svolge l’attività fuori area?
R. L’Italia è tra i Paesi più presenti nei vari teatri operativi, sotto l’egida dell’Onu e della Nato. Ad esempio l’operazione in Afghanistan, come pure l’operazione anti pirateria in atto nell’Oceano Indiano, sono sotto comando Nato, mentre nel Libano stiamo operando sotto egida dell’Onu; quest’ultimo è un contingente multinazionale molto esteso che opera sotto il comando di un italiano, il generale Paolo Serra, al quale risale tutta la responsabilità del controllo del «cessate il fuoco» tra Israele e Libano. I nostri contingenti sono molto preparati e contribuiscono notevolmente allo sforzo per la pacificazione compiuto sia dall’Onu che dalla Nato.

D. Per quale motivo l’Italia è più impegnata di altri Paesi, anche più grandi?
R. L’Italia partecipa a queste operazioni essenzialmente nel quadro di missioni di coalizione o di alleanza, mentre altri Paesi, come il Regno Unito e la Francia, per limitarci alle nazioni europee, impiegano estensivamente le proprie Forze Armate soprattutto per esigenze strategiche nazionali e solo subordinatamente per esigenze di coalizione. Ciò non toglie che, partecipando allo sforzo internazionale per limitare le situazioni di conflittualità all’estero, anche noi contribuiamo ai nostri interessi strategici e di sicurezza, che sarebbero messi a rischio da situazioni di guerra aperta. Al riguardo c’è da osservare che l’Italia ha una posizione strategica nel Mediterraneo, dalla quale non può estraniarsi, pretendendo che siano altri, i «più grandi», a risolvere i problemi. Vale in merito l’esempio della recente crisi in Libia e la situazione creatasi nel Medio Oriente che sono all’origine di fenomeni come l’immigrazione clandestina che ci interessa direttamente. Infatti, data la nostra posizione e i sette mila chilometri di coste che ci caratterizzano, siamo particolarmente esposti a tutto quello che succede nel «Mare nostrum», per cui dobbiamo svolgere una costante azione di controllo nei confronti di quello che vi accade. Inoltre vorrei sottolineare che l’Italia non è un «Paese minore». Al contrario, siamo un grande Paese, al quale gli altri guardano con attenzione e anche con rispetto, visto il ruolo che abbiamo da sempre svolto nella nostra regione. Credere ed affermare il contrario sarebbe un erroneo esercizio di modestia, che non ci aiuterebbe, soprattutto nell’attuale congiuntura internazionale.

D. A che cosa sono dovute le difficoltà operative in Afghanistan?
R. L’Afghanistan è un teatro difficile per «costruzione» potremmo dire. Una difficoltà è infatti dovuta alla sua posizione geografica e alla distanza dall’Italia. È, inoltre, un Paese raggiungibile solo per via aerea, il che rende problematici i rifornimenti. Ma non c’è dubbio che la principale difficoltà che i nostri uomini si trovano ad affrontare è costituita dalla resistenza dei talebani, che non sono né i banditi né i guerriglieri romantici che qualcuno potrebbe pensare. Al contrario, appartengono ad un movimento gerarchico ed organizzato, e sono motivati, inquadrati, armati militarmente, nonché sottoposti a ordini precisi. Si muovono in un territorio che conoscono molto bene, confondendosi con la popolazione che intimoriscono per spingerla non tanto contro di noi quanto contro il Governo afghano che noi appoggiamo. La principale difficoltà, in sostanza, è data dal fatto che ci troviamo, in quel paese, ad affrontare un problema di taglio tipicamente militare, direi bellico, e non semplicemente un problema di carattere criminale o di ordine pubblico.

D. Che differenza c’è tra il soldato italiano e quello degli altri Paesi?
R. Il soldato italiano non differisce sotto il profilo complessivo dagli altri soldati, agisce in modo assolutamente professionale, ma anche con compostezza e misura, e riesce a graduare la reazione nei confronti del nemico cercando di evitare di coinvolgere la popolazione. Purtroppo in alcuni teatri come l’Afghanistan ma non solo, queste situazioni si verificano in un ambiente promiscuo, in mezzo alla popolazione; per questo i nostri soldati sono molto attenti e si attengono al principio di rinunciare, se necessario anche a reagire a un attacco per evitare di coinvolgerla. Operano in condizioni dure, in qualche occasione di poco differenti da quelle che affrontavano i nostri padri e nonni nel passato. Addirittura in alcuni «capisaldi» in Afghanistan vivono in trincea, e quasi tutti i giorni devono fronteggiare il fuoco nemico.

D. Che cosa li induce a lasciare la famiglia e andare in guerra? La retribuzione o il carattere?
R. Indubbiamente, anche la motivazione economica ha la sua rilevanza e negarlo sarebbe ipocrita. Ma non credo che questo sia il motivo principale. Il fatto è, semplicemente, che come in tutti i Paesi, esiste anche in Italia una categoria di giovani che è attratta da una vita avventurosa, e che è spinta a girare il mondo, a conoscere altre culture, a visitare altri Paesi non come turista ma in un certo senso come elemento del paesaggio. È una categoria di persone che si sente orgogliosa di rappresentare il proprio Paese in un contesto difficile, fianco a fianco di soldati di altre nazioni più ricche di noi, che spendono per le forze armate molto più dell’Italia, senza per questo sfigurare. E poi, sono persone che si sentono profondamente gratificate dalla riconoscenza che gli viene attribuita dalle popolazioni tra le quali operano, per la loro sicurezza. A molti italiani, insomma, piace «sentirsi» soldati, riconoscersi in una comunità di pari, resa coesa dalle sfide che si devono affrontare assieme. Sono persone consapevoli di appartenere ad uno strumento, le Forze armate, che consente all’Italia di esercitare una politica estera attiva e che, grazie a loro, tutela la sicurezza e l’onore di tutti noi.

D. In quali altri «teatri» operiamo?
R. I principali sono l’Afghanistan, il Libano e il Kosovo, ma siamo presenti con contingenti minori in moltissime aree, soprattutto africane ed asiatiche. In Libano siamo presenti dagli anni 70 con l’Unifil che nel 1981 diede vita alla famosa operazione guidata dal Generale Franco Angioni; poi vi siamo tornati nel 2006 con l’Operazione Leonte e proprio grazie all’iniziativa politica e militare italiana l’offensiva israeliana si è conclusa con una tregua. Le popolazioni locali ne sono pienamente consapevoli, e ce ne sono molto grate. Inoltre siamo presenti nei Balcani con un contingente di 700 uomini circa dislocato nel Kosovo. Da noi, in particolare, dipende la sicurezza delle enclave serbe e di alcuni monasteri ortodossi nell’area.

D. Cosa spinge le donne a partecipare a missioni rischiose e quale ruolo hanno?
R. L’attività militare ha un forte sbilanciamento nel campo fisico e il «gesto atletico», se possiamo chiamarlo così, del soldato è ancora il combattimento: un’attività nella quale si devono mischiare ed armonizzare forza e resistenza fisica, preparazione tecnica, aggressività e coraggio. Per questo, la selezione dei soldati ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella formazione di un esercito, ed è sempre partita da un’analisi sanitaria e fisica della recluta. Non tutti gli uomini, ad esempio, sono in grado di fare tutto, e sono tanti i maschietti che si dimostrano incapaci di sostenere gli sforzi che necessariamente si chiedono a un paracadutista o a un alpino. Pertanto, sarei ipocrita se volessi sostenere che donne e uomini possono svolgere le stesse funzioni in combattimento. Infatti, non è vero che la tecnologia può sostituirsi alla vigoria fisica sul «campo di battaglia» e, per questo motivo, in nessun esercito nel mondo le donne vengono impiegate in «prima linea» negli incarichi più esposti come quello del fuciliere, per fare solo un esempio. In poche parole, anche nel terzo millennio gli zaini pesano e anche nel 2000 il soldato deve correre, saltare, arrampicarsi, scavare buche, tirare e prendere colpi e sparare. Se si fa un attimo mente locale e si pensa alle frequenti scene di combattimento che soprattutto nell’ultimo decennio ci piombano costantemente addosso dai nostri televisori, bisogna convenire che di donne-soldato di altri Paesi impegnate in combattimento se ne vedono poche. In ogni caso, le Forze Armate sono organismi molto complessi, e prevedono anche settori nei quali la capacità di concentrazione, la preparazione professionale, l’intuito e la generosità rappresentano una risorsa importantissima. In questi settori le donne possono dire la loro ed, anzi, rappresentare un vero valore aggiunto. Faccio un esempio tratto dalla mia esperienza personale: per un anno sono stato Capo di Stato Maggiore ISAF, il comando Nato in Afghanistan, e il mio collaboratore principale, un colonnello, era una donna canadese direttrice dello staff, molto efficiente; riusciva a tradurre e a diramare le disposizioni mie e del Comandante ai vari uffici e controllava che venissero eseguite nel modo migliore. Svolgeva un ruolo non indifferente, ed ha contribuito sostanzialmente alla funzionalità del Comando Nato in quel difficile contesto. Sicuramente, è stata migliore di tantissimi suoi parigrado uomini. Sotto il profilo motivazionale, credo che a spingere le donne a scegliere una vita impegnativa come quella militare sia la stessa motivazione degli uomini, il desiderio di vivere una vita intensa ed entusiasmante, coltivando la certezza di operare in uno strumento fondamentale per il nostro Paese.

D. In che modo e con quali mezzi si può fronteggiare il terrorismo?
R. Se parliamo di quello verificatosi in Italia, le nostre Forze dell’ordine si sono dimostrate in grado di fronteggiarlo e vincerlo. Se, invece, per terrorismo intendiamo la resistenza armata di tipo militare esistente in Afghanistan, le forze di polizia non sono assolutamente sufficienti. Occorrono, invece, capacità militari e operative ben radicate, e la disponibilità di unità militari coese, motivate e dotate di idonei strumenti tecnologici. Inoltre, serve sempre l’addestramento, che ha il compito di mettere i soldati in condizioni di sopravvivere ed operare - conseguendo gli obiettivi loro assegnati - anche in contesti impegnativi come quelli odierni. O anche peggiori. Tale addestramento è frutto di una attività continua, e purtroppo anche costosa, alla quale il militare si deve sottoporre senza soluzioni di continuità, in Patria. Non è un’attività che può essere concentrata in «crash courses» dell’ultim’ora, poco prima dell’impiego.

D. Quali sono gli obiettivi che il COI intende raggiungere nel breve periodo?
R. L’obiettivo fondamentale è quello di condurre le operazioni in corso nel modo migliore e soprattutto con la maggior sicurezza possibile per il nostro personale. In particolare, una sfida particolarmente impegnativa sarà quella di diminuire progressivamente la consistenza dei nostri reparti in Afghanistan, sulla base delle decisioni che verranno prese dall’autorità di governo italiana, senza diminuire la capacità operativa di chi resta, per la loro stessa sicurezza.

D. Come si è evoluto il COI da quando è stato costituito nel 1998?
R. Esordì nell’anno della guerra del Kosovo ed ebbe subito il battesimo del fuoco con l’impiego del nostro contingente; da allora ha fatto molta strada acquisendo capacità eccezionali, ed oggi possiamo dare per completamente acquisita la nostra integrazione in ambito Nato e Onu. In questi anni, è anche cambiato il «taglio» delle operazioni che conduciamo. Infatti, una volta le operazioni erano essenzialmente di interposizione fra due controparti giunte a una tregua, affinché non entrassero in contatto; compito non privo di rischi ma relativamente semplice, che aveva fatto pensare a qualche illuso che la guerra fosse ormai solo un ricordo del passato. Adesso affrontiamo operazioni diverse, come ad esempio in Afghanistan e in precedenza in Iraq, dove siamo dalla parte del Governo nel contrasto ad una opposizione armata e militare pericolosissima. Continuiamo invece a svolgere il ruolo di interposizione in Libano e in Kosovo.

D. Qual è stata la sua missione più coinvolgente ed emozionante?
R. La più emozionante è stata quella in Libano nel 1981, anche perché avevo 30 anni, comandavo una compagnia di 100 uomini e per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, l’esercito italiano operava fuori dal territorio nazionale. Quella più coinvolgente si è svolta in Somalia nel 1992-1993, un’operazione lunga nella quale abbiamo avuto i primi caduti, 13, in un Paese in cui si parlava italiano e nel quale abbiamo trovato anche vecchi ascari venuti a salutarci e a chiederci aiuto. I Balcani sono stati impegnativi perché operavamo in un contesto Nato, con procedure di comando, controllo e pianificazione difficili per far fronte alla minaccia di una possibile controparte armata molto agguerrita. Sotto il profilo complessivo, invece, l’Afghanistan rappresenta senz’altro l’impegno più oneroso e coinvolgente, nel quale per oltre un decennio abbiamo dovuto affrontare sfide durissime, elaborando capacità sempre nuove.

D. Come rafforzarsi per far sì che l’Unione Europea sul piano militare abbia più voce in capitolo rispetto agli Usa?
R. L’Europa è una potenza economica e politica, ma dal punto di vista militare ha Paesi che credono nella politica militare e spendono di più, ed altri che non possono destinare a questa molte risorse. Ritengo che questo sia una causa di debolezza, perché quello militare è anche strumento di politica estera, e l’abbiamo visto nella recente crisi libica. Non avere uno strumento militare adeguato vuol dire non avere voce in capitolo e non poter essere presente alla pari con altri Paesi laddove si decidono anche i nostri destini.

D. Esiste ancora il mito «italiani brava gente»?
R. Le popolazioni tra le quali ci troviamo ad operare non conoscono gli italiani, sanno a malapena dove si trova Roma, ma sistematicamente quanti vengono a contatto con il nostro contingente ne riportano un’ottima opinione, perché i nostri soldati si comportano bene e cercano di conciliare le azioni militari per la sicurezza della popolazione con altre di carattere umanitario. In Afghanistan il nostro Provincial Reconstruction Team realizza progetti a favore della popolazione, come pozzi, ponti, strade, scuole, carceri. Ma già in Somalia avevamo un ufficio degli affari civili che aiutava le donne somali a smerciare i loro prodotti in Italia, attività che abbiamo sempre seguito con passione. Detto questo, sono comunque contrario al mito autocompiacente dell’Italiano buono, come se solo nel settore umanitario potessimo dare il nostro meglio. I nostri soldati, infatti, vengono apprezzati anche e soprattutto perché sono efficienti e coraggiosi e non semplicemente perché sono «sensibili». È falsa la favola dell’italiano buono, termine suggestivo e «polite» usato da qualche connazionale pentito per sottintendere altre aggettivazioni.

D. Che cosa manca e cosa vorrebbe oggi per il COI?
R. Più risorse ovviamente, anche se so benissimo che ci viene dato tutto il possibile, compatibilmente con la situazione difficile che vive il Paese. Soprattutto, però vorrei che vi fosse la consapevolezza che uno strumento militare efficiente richiede un addestramento non improvvisato né ridotto, ma quotidiano. Inoltre servono munizioni, carburanti, aree per i poligoni. E in egual misura abbiamo bisogno che la nostra opinione pubblica si ricordi dei militari non solo commuovendosi al rientro di una bara, ma tutti i giorni.

D. I Governi non pensano che i soldati dovrebbero essere addestrati meglio?
R. Una quindicina di anni fa da noi è avvenuta una rivoluzione vera e propria, quando siamo passati dalla coscrizione obbligatoria al servizio professionale attuale. Questo passaggio epocale, frutto di una scelta politica assolutamente bi-partisan, avvenne quasi nel silenzio assoluto in quanto tra le principali motivazioni che lo innescarono ci fu soltanto la volontà di realizzare uno strumento più contenuto, che costasse meno. Quando lo stesso provvedimento fu adottato invece in Francia, il presidente di quella Repubblica parlò a reti unificate alla nazione per spiegare l’importanza di quel passaggio per la società francese, che investiva sia la sfera sociale che quella militare. In sostanza, da noi c’è poca consapevolezza dell’importanza delle Forze Armate, che rappresentano una risorsa per l’affermazione del Paese in ambito internazionale e per garantire la sicurezza e la possibilità di parlare, di esistere. Una parte considerevole della credibilità del nostro Paese in ambito internazionale è infatti dovuta a quanto fanno i nostri uomini in Afghanistan, Libano, Kosovo, Oceano Indiano e a quanto hanno fatto in precedenza altri soldati italiani in altri teatri. Credo che alla base di questa impostazione sbagliata e sotto certi aspetti leggermente suicida, ci siano delle incrostazioni ideologiche di vecchia data, prima tra tutte l’idea che il progresso ci abbia emancipato dal fastidio di avere a che fare con situazioni sgradevoli e politicamente scorrette come le guerre. Cosa purtroppo smentita dalla realtà che continua a riproporsi con sempre maggiore virulenza negli ultimi anni.

D. Era più opportuno il servizio militare obbligatorio?
R. Com’era una volta non sarebbe stato più sostenibile. I tedeschi l’hanno mantenuto ancora, soprattutto a fini sociali, per favorire una sempre maggiore unione tra le due vecchie Germanie. Non c’è dubbio che, come accadde a noi con il primo conflitto mondiale, mettendo ragazzi di zone ed estrazioni diverse del Paese a soffrire e anche a morire insieme, si crea un sentimento di comunanza nazionale fortissimo, importante non solo sotto l’aspetto militare. Ma, sicuramente, questo modello non sarebbe ora sostenibile in attività che richiedono capacità che possono acquisirsi solo nel lungo periodo, con addestramenti protratti per anni. Non possiamo tornare indietro, ma dobbiamo porci il problema di come inculcare nei giovani il senso dello Stato. Infatti con la leva obbligatoria i ragazzi capivano di far parte di qualcosa molto più grande e complesso del paesello in cui erano cresciuti, e vivendo fianco a fianco di coetanei che nella vita normale non avrebbero mai incontrato elaboravano una consapevolezza del valore della nostra comunità nazionale che, certamente, oggi ci farebbe comodo. Era una scuola di democrazia di cui credo che si sentirà sempre più il bisogno.    ■

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